Io sono un'isola. E tu?
Lo dico, mentre mi preparo a lasciarne una che è stata la mia casa negli ultimi tre anni. E poi ho fatto il test del NY Times per scoprire se sono una vera viaggiatrice ed è andata così così...
Ciao, questa è ufficialmente la prima “edizione” di Spazio Amato, dopo le presentazioni della numero 0. Inizio con un grande e sorridente “grazie”, a te che stai leggendo. E continuo chiedendoti di dirmi se Spazio Amato ti piace o se lo modificheresti in qualcosa e come.
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Sto scrivendo mentre sto inscatolando casa: lascio Venezia e vado a vivere in provincia di Varese, dove sono cresciuta. Passo da un’isola ai boschi. Sono in evoluzione: lascio quella che io ho sempre chiamato la mia isola che non c’è. Un anno e mezzo fa non avrei mai pensato di andarmene. Poi le cose sono cambiate, io sono cambiata, e in 6 mesi la decisione è stata presa, mi sono liberata di tanti pesi inutili - ché nella vita è sempre meglio viaggiare leggeri - e quelli necessari li ho messi dentro 15 scatole.

Amo le isole e non sono l’unica, c’è una proficua letteratura (questo libro mi era piaciuto molto) perché metaforicamente funzionano molto bene: ogni isola è un mondo a sé e quindi possiamo dire che ognuno di noi sia un’isola. Creiamo degli arcipelaghi con le persone a noi affini, ma in fondo abitiamo tutte nello stesso mare.
Ho letto sul sito di Le Monde di un arcipelago spagnolo che non conoscevo: quello delle Isole Cíes. L’articolo è per gli abbonati al sito, vi lascio qui allora un altro articolo - meno recente - di Lonely Planet.
Siamo isole connesse, seppure ognuna indipendente e libera di creare le proprie regole - regole non intese come leggi. Intendo che ciascuno sceglie per sé (si spera il meglio) e poi, in base a ciò che ha scelto, guarda il mondo con i propri occhi e con quello che ha nel cuore.
Hai paura nel cuore? Vedrai paura. Hai amore? Vedrai amore? Hai rabbia? Vedrai rabbia. Hai pace? Sarai compassionevole. Costruire la propria isola è un lavoro infinito, tante volte stancante, ma gratificante e una delle poche cose che abbia senso fare in questa vita terrena. E la cosa più bella è che non ci sono confini: siamo liberi di espandere la nostra isola all’infinito e renderla sempre più rigogliosa.
A proposito di isole, ecco le 3 del mio cuore
La prima, ovviamente, è Venezia. Il luogo che mi ha insegnato a fare pace con la mia sensibilità, ad ascoltarmi e ad accettare che non tutto si può controllare. Sei ore scende e sei ore sale: l’acqua. La tua vita si deve adattare di conseguenza.
C’è poi Salina, un mondo a metà tra realtà e ultraterreno, la più verde delle isole Eolie. Lontana dal mondo, ma accogliente come l’abbraccio di un genitore o di un amico del cuore, con quei tramonti che zittiscono e lasciano che i pensieri siano liberi di diventare rumorosi. Salina è l’isola della consapevolezza.

E infine c’è Fraser Island, l’isola di sabbia più grande del mondo e luogo sacro per gli Aborigeni, al largo di Brisbane, in Australia. È il luogo più selvaggio dove sia stata. Niente bagno nell’Oceano: troppo pericoloso; niente passeggiate la sera: ci sono i dingo; niente porte aperte per cambiare l’aria: ci sono troppi animali velenosi. La natura non si comanda.
Le news più interessanti che ho letto
Parlavo dell’esigenza di viaggiare leggeri e Mike MacEacheran della BBC si chiede se in futuro viaggeremo senza valigie. Perché? Praticità e minori emissioni di CO2. Japan Airline sta lanciando un servizio pilota per proporre a chi viaggia un servizio di noleggio abiti da ritirare all’arrivo, ma dubito potrà avere successo. Convincerà di più a viaggiare leggeri, invece, il divieto di trolley imposto dalla città di Dubrovnick.
Vi credete (mi credo?) dei viaggiatori esperti? Sul NY Times potete fare un test per scoprire se siete aggiornati con i trend del momento. Io ho risposto correttamente a 5 domande su 10, responso: “non male”. Ma perché è così importante sentirsi viaggiatori esperti? Non sarebbe più bello partire con l’innocenza di chi non ha pretese, soprattutto da se stesso?
Infine, per chi ha tempo, consiglio questo long form pubblicato dal The New Yorker sulla città di San Francisco. L’autore si chiede che fine abbia fatto SF? È davvero diventata la città peggiore degli Stati Uniti dove vivere? Il punto è: se non è un luogo in cui si deve stare, allora deve diventare un luogo in cui si vuole stare. Ma chi ha la responsabilità di avviare un cambiamento? Tutti: l’unica soluzione possibile per la sopravvivenza di un luogo è che tutti siano coinvolti.
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